Democrazia, Ideologia, e il Mondo Antico: Un’intervista a Luciano Canfora
Una dozzina di anni fa, durante un viaggio in Italia, ho preso in mano una storia generale della democrazia scritta da uno studioso italiano, Luciano Canfora. In seguito ho appreso che Canfora non era solo un prolifico autore di opere sia accademiche che divulgative, ma anche che era attivamente coinvolto nella politica come membro del Partito Comunista Italiano e dei suoi successori. Recentemente sono stato presentato a Canfora tramite il mio collega Dino Piovan; quando ho richiesto un colloquio sul mio canale YouTube, il Prof. Canfora ha suggerito invece uno scambio di email. I risultati sono i seguenti.
La prima domanda è molto semplice: Lei Prof. Canfora nel 2004 ha pubblicato un libro intitolato La democrazia: Storie di un’ideologia. Perché scrivere una storia “di un’ ideologia,” e non semplicemente una storia della democrazia, delle sue forme istituzionali ecc.?
Quel titolo ad effetto fu fortemente voluto dall’editore italiano ma fu abrogato, per esempio, nell’edizione tedesca (Papyrossa Verlag, con postfazione di Oskar Lafontaine), dove il titolo è Eine kurze Geschichte der Demokratie e in quella inglese (Blackwell’s) Democracy in Europe. A short History. Quanto alla scelta caldeggiata dall’editore italiano, penso che essa voglia porre l’accento (ricorrendo al senso corrente che si dà alla parola “ideologia”) sul carattere di idealità mai compiutamente attuata del principio democratico. È bene comunque precisare che fu Jacques Le Goff a chiedermi di trattare l’età dal 1789 al 1989 con un breve preambolo sulle origini greche.
Parliamo allora di queste origini greche. Quale è stata precisamente, secondo lei, l’importanza dei greci nella storia della democrazia?
Mi sembra più giusto dire che essi hanno contribuito alla nascita della conflittualità politica nelle sue molteplici declinazioni. È noto peraltro che uno studioso indiano di spicco quale Amartya Sen ha rivendicato la nascita già nelle antiche comunità indiane delle “deliberazioni prese a maggioranza dopo discussione.” E già Erodoto nel III libro della sua opera storica ha con una certa insistenza ribadito che il principio democratico — “la massa popolare al governo” egli dice — fu prospettato, prima di Clistene, in Persia, nella crisi conseguente alla fine di Cambise. A Roma, sia in età repubblicana che nei secoli di crescente potere “monarchico” la parola stessa “democrazia” fu assente, anche dal lessico. Possiamo dire, un po’ semplificando, che il richiamo al modello greco-ateniese si fece strada a partire dalla svolta radicale impressa dalla nascita della prima repubblica francese. Ma non ebbe vita facile.
Infatti, il terzo capitolo del suo libro si chiama “Come ritornò in gioco e come alla fine uscì di scena la democrazia greca.” Ci può spiegare cosa intendeva esattamente con queste parole? In che senso ritornò in gioco il modello greco-ateniese? Che cosa è stato riscoperto, e che cosa è andato perduto?
Il modello greco (ma anche romano) tornò in auge nel tardo Settecento per opera di illuministi radicali come l’abate Mably, ispiratore poi di alcuni protagonisti della Rivoluzione francese. La caratteristica di questi riscopritori del mondo antico, tra i quali annovererei anche Rousseau, era di non avere una conoscenza scientifica e fondata delle strutture politiche e costituzionali delle città greche meglio note e della stessa repubblica romana. Alcuni di loro parlavano di Sparta come di una repubblica, il che ovviamente fa sorridere. Non capivano nulla della problematica riguardante la schiavitù. Furono alcuni notevoli studiosi termidoriani, come in particolare Volney, a smascherare l’ingenuità e il carattere strumentale e approssimativo della vampata rivoluzionaria in favore delle repubbliche antiche. Un tardo imitatore dei termidoriani fu nel 1819 Constant, nel troppo celebrato intervento sulla libertà degli antichi e dei moderni. In quel torno di tempo si consumò il fallimento della ingenua prospettiva di rifarsi al modello greco-romano. Non fu dunque una scoperta di novità, ma semmai la scarsa informazione a rilanciare quel modello.
Ciò che emerse allora fu lo stato rappresentativo moderno e la cosiddetta democrazia liberale. Per lei il periodo delle rivoluzione francese fu anche “la prima vittoria del liberalismo.” Dovremmo concludere che è stata la democrazia a perdere?
Non condivido l’uso, così frequente, della espressione “democrazia liberale,” e tanto meno in riferimento alla Francia di Luigi XVIII. Tutta la storia del secolo XIX, dopo la sconfitta definitiva di Bonaparte e fino alla prima guerra mondiale è caratterizzata dalla lotta tra liberalismo (ancorato al suffragio ristretto) e movimento democratico (impegnato, tra l’altro, nella istanza di allargamento del suffragio). E certamente la nascita e l’impegno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (1864) fu una tappa importante in questo scontro. Chi poi abbia “vinto” o “perso” è quesito metastorico: vittorie e sconfitte, nel divenire storico, sono provvisorie.
Infatti, la democrazia nel suo libro appare più vicinaalla democrazia sociale che la democrazia liberale. Lei ripete la definizione di Norberto Bobbio secondo il quale “l’egualitarismo è l’essenza della democrazia.” Ma questo egualitarismo è un egualitarismo economico o politico? I voti per i partiti o le politiche che aumentano la disuguaglianza economica, magari nella speranza di una maggiore crescita, sono intrinsecamente non democratici?
È calzante la visione che Bobbio ebbe della democrazia. Era la visione affermatasi grazie al movimento di “Giustizia e Libertà” (poi Partito d’Azione). Fu avversata dai liberali, da Croce ad Einaudi proprio perché non si limitava alla cosiddetta “eguaglianza dei punti di partenza” (che piace molto a coloro che vogliono arrivare primi o tra i primi). Quanto agli andirivieni elettorali, non possono essere presi troppo sul serio: per lo più sono l’espressione di pulsioni condizionate da fattori esterni, non sempre visibili e tanto meno limpidi.
Se ho capito bene, la traduzione tedesca del suo libro sulla democrazia è stata respinta da Beck dopo accuse di negazionismo nei confronti dell’Unione Sovietica e di Stalin in particolare. Certamente, il tentativo di censura sembra ora insensato (e la traduzione tedesca è stata comunque pubblicata successivamente da Papyrossa). Ma come risponderebbe oggi alle critiche che il suo libro fosse troppo indulgente verso lo stalinismo, e verso le sue pretese di democrazia?
Mi limiterei a segnalare che tali critiche, pur inoltrate (in modo poco elegante) all’editore inglese Blackwell, furono da quell’editore ignorate e la traduzione fu regolarmente edita. Quanto al carattere inconsistente delle cosiddette critiche di Beck, una replica analitica è contenuta nel mio volumetto L’occhio di Zeus edito in Italia, in Francia, in Germania e riprodotto per intero dalla rivista Storiografia (no. 9, 2005).
Il suo libro contiene anche molte critiche alla democrazia statunitense. Discute documenti del governo degli Stati Uniti che suggeriscono chequest’ultimo aveva in programma di falsificare o ribaltare le elezioni italiane del 1948 se ci fosse stata una vittoria comunista. Critica anche il cosiddetto “sistema misto” adattato da Madison e Hamilton per gli Stati Uniti, un sistema che, secondo lei, “è tutt’altra cosa’ che la democrazia,” visto che tende a consistere in “un po’ di democrazia e molto di oligarchia.” Nonostante tutti i deficit e i fallimenti della democrazia statunitense, e più in generale delle democrazie rappresentative occidentali, la pratica ormai ben consolidata di elezioni regolari non conferisce a questi sistemi una certa legittimità democratica (soprattutto rispetto ai rivali autoritari), e offre magari addirittura qualche speranza per future riforme democratiche?
Negli anni Trenta Silvio Trentin, in un bel saggio nato come commento alla nuova Costituzione sovietica paragonò l’URSS alla Ginevra di Calvino e gli USA al governo dei gangster. Il fatto che esperimenti ardui perché contrastanti con l’egoismo individualistico falliscano non toglie nulla alla loro superiorità morale sui gangster. I quali hanno potenziato, col passar del tempo, la loro forza criminale. Si può leggere utilmente il volume «Il Metodo Giacarta» (The Jakarta Method) di Vincent Bevins, apparso da poco in Italia presso Einaudi. Che i criminali giochino anche, periodicamente, alla farsa elettorale non mi ha mai commosso.
Come sarebbe allora per lei una vera democrazia? E come potremmo
ottenerne una partendo da dove siamo ora in Occidente?
La “vera democrazia” non esiste, non è mai esistita, è semplicemente una idea-forza. Con questo termine intendo un obiettivo non raggiungibile ma che mobilita positivamente la comunità politica. Un notevole teorico e sociologo quale Gaetano Mosca, docente di grande valore all’università di Torino all’inizio del Novecento, ricorse al seguente apologo: un anziano contadino cinese, in punto di morte, disse ai suoi tre figli che nel suo orto era nascosto un tesoro; i tre si affannarono a scavare, rimuovere la terra, ma non trovarono nulla. Solo che nel frattempo quel terreno migliorò enormemente per essere stato dissodato. Mosca conclude: quella è la democrazia.
Lei è stato un prolifico autore di opere sia sulla storia classica che sulla politica contemporanea. È stato attivo sia come professore che nella politica di sinistra. Oggi, soprattutto nelle università americane, c’è un movimento che vede la disciplina della filologia classica come fondamentalmente razzista, in quanto sembra privilegiare l’Occidente rispetto ad altre parti del mondo. Qual è la sua opinione su questa tendenza? Qual è secondo lei il valore dello studio della letteratura e della storia classica, soprattutto per i giovani radicali di sinistra?
Ho studiato la storia degli studi classici. Essa incomincia per lo meno con i grammatici alessandrini, prosegue con i grandi eruditi romani, pergameni, più tardi franco-gallici etc. Nell’età dell’Umanesimo gli studi classici furono una bandiera progressista. Alla fine del XVII sec. furono investiti dalla celebre querelle degli antichi e dei moderni, ma ripresero quota come bandiera progressista durante la rivoluzione francese. Il secolo XIX, che fu funestato da varie forme di nazionalismo e razzismo, vide utilizzi reazionari del mondo antico (anche germanico). Contemporaneamente Spartaco diventava una bandiera del socialismo mondiale. Ritenere che lo studio del mondo antico greco e romano, nel XXI secolo, sia di destra o di sinistra, è una sciocchezza. Questi studi non costituiscono più l’architrave di una qualche ideologia. Sono semplicemente un ambito di studi per fortuna tuttora di buon livello riguardanti una porzione della storia universale che indubbiamente è molto più grande dell’impero romano.